Da sempre, nelle campagne, l’immagine di Sant’Antonio Abate è presente nei luoghi dove vivono e riposano gli animali domestici. A volte, a far bella mostra sul retro dell’ingresso della stalla, è una formella in ceramica finemente dipinta, il più delle volte, un santino lordo e spiegazzato di nessun valore artistico.
Qualunque sia la forma, la sostanza non cambia. Il famoso abate egiziano è sempre lì, con le vesti da eremita, la lunga barba bianca, il bastone a Tau, il porcellino e una vivida fiamma ai piedi.
In questa ricorrenza è usanza benedire gli animali domestici sui sagrati per preservarli dalle malattie e rinnovare le immagini del Santo nelle stalle a scopo propiziatorio.
Per la festa del loro protettore, poi, le bestie venivano trattate amorevolmente, ben nutrite, esentate dal lavoro e, ovviamente, non potevano essere macellate. Si dice infatti che, in questa magica notte, gli animali acquistino la parola.
In Romagna, era altresì tradizione dare agli animali ammalati un pezzetto di pane benedetto il giorno di sant’Antonio, affinché guarissero, oppure tre fave nere.
A Roma, nei secoli scorsi, la cerimonia si svolgeva invece con grande sfarzo: gli animali da benedire erano numerosissimi e andavano dai buoi agli asini, dagli animali da cortile fino ai cavalli delle carrozze dei nobili. La benedizione, poi, aveva luogo in origine nella vicina chiesa di Sant’Antonio Abate, il santo protettore degli animali, e solo quest’ultimo secolo è stata dirottata, per motivi di traffico, a Sant’Eusebio.
Naturalmente la benedizione richiedeva un’offerta da parte dei proprietari delle bestie alla chiesa di Sant’Antonio; essa andava da quelle in natura dei contadini a quelle cospicue in denaro dei nobili.