Dove passa la linea che separa l’umiltà dei dialetti locali dalla nobiltà di una lingua nazionale? Dove finisce la parlata viterbese, per esempio, e dove comincia l’italiano di padre Dante? Perché noi viterbesi siamo convinti che il nostro non sia neanche un dialetto vero e proprio, ma solo una ‘calata’ (oltretutto greve), una storpiata cantilena? Perché ciò che sopravvive del parlare dei nostri avi ha più tratti in comune con il dialetto orvietano che non col romanesco di Belli, Trilussa, Pascarella? Quanti sanno che fino all’altroieri la traccia ‘verticale’ segnata sulle carte dalla via Cassia (Montefiascone e Viterbo, per l’appunto) segnava anche un confine di trasformazioni linguistiche millenarie da ricollegare alla scomparsa della ‘u’ finale latina?
Dal tramonto dell’impero romano d’occidente al boom economico del secondo dopoguerra, parole e cose cambiarono pian piano, poco alla volta, quasi senza che ce ne rendessimo conto. Poi, improvvisamente, tutto accelerò. Vertiginosamente. E alla metà degli anni Sessanta arrivarono loro. Brancaleone e Pappagone. Il primo era in realtà l’ultimo: perché il suo esilarante neolatino-viterbese discendeva dritto-dritto dalla lingua delle rape dei nostri antenati: dal volgare di Albertèl e Carboncello di San Clemente a Roma, da quello di Micciarello dell’Amiata e di Ghisòlfolo di Travale in Maremma. Nella parlata di Brancaleone riconoscevamo ancora le nostre radici, rustiche e illustri al tempo stesso. Ma eravamo al capolinea. Fu Pappagone il primo ‘mutante’ parlante neoitaliano, l’antilingua del nostro dopostoria: i suoi eqqueqquà furono la litania funebre delle nostre sorgenti linguistiche; il suo parlar goffo e ridanciano, le sue sgrammaticature segnarono l’incipit del mondo nuovo. Nei cinema e davanti alle tivù ridevamo a crepapelle: ma era solo un trigesimo. Per ciò che eravamo stati e non volevamo essere più. Mai più. A qualunque costo.
E fu a quel punto che comparvero i poeti dialettali. Ehi, intendiamoci: non che prima non ne fossero esistiti! L’intera storia della letteratura italiana è anche storia ‘dialettale’. Ma mentre i poeti del ‘prima’ erano stati cantori di una qualche stagione presente, e viva, questi erano invece stirpe nuova di saturnini epigoni: i versi della nuova vernacolarità erano (e sono) infatti dettati come qualcosa di irrimediabilmente ‘postumo’, come un compianto per l’inabissamento dell’Atlantide contadina, apocalisse di cose e di parole. La loro poesia era (ed è) anzitutto nostalgia per quel mondo, nel suo bene e nel suo male. Non importa che si trattasse del filò veneziano e veneto di Andrea Zanzotto e del friulano casarsese di Pier Paolo Pasolini (poeti assoluti, fabbri capaci di sublimare il loro parlar materno in grimaldello critico, in lingua di inedefettibile e universale dignità) o del più modesto vernacolo viterbese di piccoli poeti malinconicamente votati al localismo. Uno il discorso, uno il commo.
La pro loco di Viterbo continua il suo percorso di valorizzazione della città attraverso la conoscenza di ogni sua peculiarità, alla scoperta dei suoi tantissimi colori e sfumature, e vi invita insieme ad Antonello Ricci ad omaggiare i poeti del dialetto viterbese di tardo Novecento, passeggiando per strade e piazze di Piascarano (vera e propria città-nella-città, enclave di residua viterbesità) in compagnia dei commossi versi e dei sapidi bozzetti di Vittorio Galeotti, Emilio Maggini, Edilio Mecarini, Ezio Urbani e altri.
Appuntamento venerdì 11 ottobre alle ore 21 sul ponte del Duomo con brindisi finale alla bella serata trascorsa insieme. Quota di partecipazione euro 5.
Info e prenotazioni 393 3232478 – info@prolocoviterbo.it